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Proponevasi nel rapporto la fusione di tutte le compagnie come cosa che apparentemente sembrava più spedita insieme e più vantaggiosa all’impresa; ma non si dissimulavano le difficoltà incontrate, e quindi la impossibilità di riuscirvi, dichiarandone succintamente i motivi.

Per ultimo si discuteva sulla improprietà e convenienza di assicurare un minimo d’interesse agli intraprendenti, se ne assegnavano le ragioni pro e contra, ed in fine si lasciava al Santo Padre la decisione su tutto ciò che in genere ed in ispecie si riferiva alla concessione delle strade ferrate.

La conclusione però si fu, che sia per la difficoltà della fusione delle varie società, sia per quella delle idonee garanzie, sia per la questione vitale, ma non risoluta nell’anno 1847, sull’assicurazione del minimo dell’interesse, i progetti rimaser tutti in sospeso; finchè vennero i tempi grossi che a ben altro che a strade ferrate, figlie dell’ordine e della pace, tenner rivolto il pensiero.

Questo sì possiamo assicurare, che la società nazionale, come dicemmo nel capitolo IV, col volere escludere i capitalisti, col fare un appello invece alla popolarità, e col dare un’apparenza di associazione democratica alla intrapresa, lungi dallo incoraggiare, scorò del tutto, e fece sì che si rappiattassero i personaggi più ragguardevoli e facoltosi; quelli in somma che potevano ispirar fiducia e coraggio. Quindi s’intimorì l’aristocrazia e il commercio, e si lasciò così il varco aperto o agli esteri imbroglioni e speculatori, o ad alcuni dei nostri, che, seppure rispettabili fossero, non era da sperarsi che per la tenuità dei loro mezzi o del loro credito potessero far sorgere le strade ferrate nel nostro paese. La vis unita fortior sarebbe quindi stata forse realizzabile se la prima società del principe Conti e compagni colla utopia dei cinque baiocchi e mezzo di risparmio, trasformatasi poi in nazionale, non si fosse mai affacciata sulla scena, e lasciate avesse intraprese siffatte ai soli uomini capaci di condurle