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rono quanti più poterono a prendere le armi e seco loro unirsi per fiaccare la potenza di lui. Ariberto andò incontro a costoro, avendo fra i suoi anche altri vescovi suffraganei. Seguì una zuffa assai ostinata, e il partito dell’Arcivescovo rimase con poco vantaggio, e fra gli altri uccisi si annoverò il vescovo di Asti suo suffraganeo, che rimase sul campo1. Venne poi l’imperatore Corrado in Italia nel 1037; e si portò a Milano. Cosa veramente gli accadesse, non lo sappiamo; si parla dagli autori di inquietudine sofferta, di tumulto popolare. Quanto sappiam di certo, si è che quell’Augusto ben tosto portossi a Pavia, dove l’arcivescovo Ariberto lo raggiunse. Ma, sia che quell’Augusto avesse attribuito ad Ariberto la poca sicurezza ritrovata in Milano, sia che l’Arcivescovo usasse di un tuono poco rispettoso e sommesso, la storia c’insegna che Ariberto ivi fu arrestato, e sotto buona scorta trasportato a Piacenza prigioniero. Io non trovo difficiltà a credere che realmente Ariberto non fosse contento che in Milano soggiornasse un uomo maggiore di lui; che egli indirettamente potesse aver fomentata la licenza del popolo per farne partire l’Imperatore; e che confidando sull’autorità che possedeva, o sulla illusione del Principe, si presentasse a lui a Pavia con sicurezza. A custodire il prigioniere Ariberto l’Imperatore aveva destinati i suoi più fidi, ai quali l’Arcivescovo offrì una lauta cena, abbondante singolarmente di scelti vini. I custodi cedettero alla ghiottoneria, e la secondarono sino alla ubbriachezza; e questo era appunto lo stato al quale aveva pensato di ridurli l’Arcivescovo per sottrarsi, come fece, alla loro custodia. Così egli ricuperò la

  1. Arnulph. lib. II, cap. 10. - Flam. Manip. flor. cap. 141.