Pagina:Svevo - Corto viaggio sentimentale e altri racconti, 1949.djvu/357

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parola abbia una maggiore vivacità di quella dei suoi coetanei. La parola nella bocca del maggior numero di noi è un po’ vizza per il lungo uso. Chi di noi si sforza d’inventare? Lui, invece, traduce allegramente modi di dire dal suo spagnuolo argentino e tutto in bocca sua si rinfresca senza sforzo. Studia tutto quello che gli occorre. Sa anche a memoria degli squarci di greco e di latino, che cita con grande ira al ricordo della fatica che gli costarono per ricordarli. So per sua propria confessione che il suo corpo s’è fatto tanto sottile a forza di passare al ginnasio e al liceo di classe in classe per il buco della chiave.

Ama le donne deciso e convinto. Anzi per quanto si diverta a qualunque specie di giuochi (di carte specialmente), proclama ad alta voce che c’è un solo godimento a questo mondo. E non sa astenersi dal fare delle continue allusioni a quel godimento, tali, che se non fossero sempre molto spiritose, ci offenderebbero. Se la prende talvolta con Augusta che non sa mai indovinare i suoi sensi reconditi. Noi due, maliziosi, ridiamo molto ma mai quanto lei quando ha finito con l’intendere. Quando finisce con l’intenderli, minaccia di crollare dalla sedia dal ridere. Una lieta serenità si estende a tutt’una adunanza quando egli vi interviene, naturalmente se nell’adunanza non vi sono degli ostacoli troppo grandi come, in casa nostra, un Alfio offeso nella sua pittura o un’Antonietta in lutto profondo.

Ma la sua serenità non è diminuita da alcuna preoccupazione. Ci raccontò d’essere stato perseguitato per varii giorni dall’avversità a giuoco: «La disgrazia non è grande» disse con l’aria di scoprire una cosa straordinaria «quando le carte son cattive. A Poker la perdita grossa è prodotta dalle carte buone. Sono stato fortunato in questa settimana, disgraziatamente». Perdeva raramente perché sapeva sempre giuocare un po’ meglio di tutti i suoi avversarii. E sapeva giuocare tutti i giuochi. Da pochi anni io so ch’esiste un giuoco difficilissimo che si chiama bridge. Ma ne appresi l’esistenza simultaneamente alla comunicazione che in città il miglior giuocatore di tale giuoco appena arrivato dall’Inghilterra era Carlo. “Figlio di un cane”