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IL GIOVINE MEDICO


Il giovine medico si avviava di sera accompagnato dalla sua fidanzata verso l’ospedale. Erano ambedue giovini e belli e si sentivano associati dal loro amore e dalla loro speranza. Incombeva la notte e la giovinetta sentiva meglio il pericolo a cui il suo caro si esponeva. «Sí!» sospirava «devi fare il tuo dovere, ma fa attenzione. Non hai bisogno di toccare l’ammalato. Per studiarlo ti basta guardarlo.» Il giovine medico uso già da tanto tempo a considerarsi immune dalle infezioni cui si esponeva sorrise. Il mestiere dev’essere fatto e la malattia cui ora si esponeva gli sembrava la meno pericolosa. Veniva dall’India ed era di decorso breve. Una febbre intensa che doveva essere dolorosissima perché induceva il malato al suicidio. Se si arrivava ad impedirgli l’autodistruzione in breve la febbre spariva, subentrava un’improvvisa euforia e il malato era salvo. Poteva anche essere avvicinato poi perché non v’era caso in cui il morbo si fosse propagato da chi lo aveva superato. Queste le notizie che si erano avute delle esperienze fatte all’India. Nella nostra città questo era il primo caso toccato ad un marinaio giuntovi da poco ed i medici lo assistevano con interesse scientifico piú che umano.

«Capirai» disse il giovine «che se seppi sfuggire al tifo e al colera saprò anche fuggire a una malattia che per compire il suo ciclo deve invocare anche il mio aiuto. Non lo compirà dunque.» Le strinse affettuosamente il braccio che aveva afferrato. Poi rise: «Il suicidio! Pensa se saprei rinunziare a te». Guardò la piccola fronte di marmo, gli occhi dalle linee precise su cui le ciglia lunghe gettavano un’ombra che ne compiva il disegno delizioso, la boccuccia breve ed alta per l’arricciamento ancora infantile delle labbra. «Rinunziare a te e alla vita!» E pensò anche alla vita che gli si avvicinava bella comoda col successo nella sua professione cui era giunto con tanto sacrifizio, con tanto sforzo. Ora i colleghi lo stimavano.