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rare per causa mia la cucinatura della cena. Essa mi rassicurò. Cucinava dei fagiuoli, che non erano mai troppo cotti. La povertà del cibo che si preparava nella casa le cui spese dovevo oramai sostenere io solo, m’ammorbidi e smorzò la stizza che provavo per non aver trovata pronta la mia amante.

La signora rimase in piedi ad onta ch’io ripetutamente l’avessi invitata di sedere. Bruscamente le raccontai ch’ero venuto a portare alla signorina Carla una bruttissima notizia: il Copler era moribondo.

Alla vecchia caddero le braccia e subito sentì il bisogno di sedere.

— Dio mio! — mormorò — che cosa faremo ora noi?

Poi si ricordò che quello che toccava al Copler era peggio di quello che toccava a lei e aggiunse un compianto:

— Il povero signore! Tanto buono!

Aveva già la faccia irrorata dalle lagrime. Essa, evidentemente, non sapeva che se il pover’uomo non fosse morto a tempo, sarebbe stato buttato fuori di quella casa. Anche questo mi rassicurò. Com’ero circondato dalla più assoluta discrezione!

Volli tranquillarla e le dissi che quello che il Copler aveva fatto per loro fino ad allora, avrei continuato a farlo io. Essa protestò che non era per sè stessa ch’essa piangeva, visto che sapeva ch’esse erano circondate da tanta buona gente, ma per il destino del loro grande benefattore.

Volle sapere di quale malattia morisse. Raccontandole come la catastrofe s’era annunciata, ricordai quella discussione ch’io tempo prima avevo avuta col Copler