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mamma. Ma chi può arrestare quelle immagini quando si mettono a fuggire traverso quel tempo che giammai somigliò tanto allo spazio? Quest’era il mio concetto finchè credetti nell’autenticità di quelle immagini! Ora, purtroppo (oh! quanto me ne dolgo!) non ci credo più e so che non erano le immagini che correvano via, ma i miei occhi snebbiati che guardavano di nuovo nel vero spazio in cui non c’è posto per fantasmi.

Racconterò ancora delle immagini di un altro giorno alle quali il dottore attribuì tale importanza da dichiararmi guarito.

Nel mezzo sonno cui m’abbandonai ebbi un sogno dall’immobilità dell’incubo. Sognai di me stesso ridivenuto bambino e soltanto per vedere quel bambino come sognava anche lui. Giaceva muto in preda ad una letizia che pervadeva il suo minuto organismo. Gli pareva di aver finalmente raggiunto il suo antico desiderio. Eppure giaceva là solo e abbandonato! Ma vedeva e sentiva con quell’evidenza come si sa vedere e sentire nel sogno anche le cose lontane. Il bambino, giacendo in una stanza della mia villa, vedeva (Dio sa in quale modo) che sul tetto della stessa ci fosse una gabbia murata su basi solidissime, priva di porte e di finestre, ma illuminata di quanta luce può far piacere e fornita di aria pura e profumata. Ed il bambino sapeva, che a quella gabbia egli solo avrebbe saputo giungere e senza neppure andare perchè forse la gabbia sarebbe venuta a lui. In quella gabbia non v’era che un solo mobile, una poltrona e su questa sedeva una donna formosa, costruita deliziosamente, vestita di nero, bionda, dagli occhi grandi e azzurri, le mani bianchissime e i piedi piccoli in scarpine laccate delle quali, di sotto alle gon-