Pagina:Svevo - Senilità, 1927.djvu/122

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una scena ben diversa. Ora sentiva una minaccia. Egli stesso aveva alluso alla propria mancanza di diritti, ed era possibilissimo ch’ella, essendo a corto d’argomenti, accettasse il suggerimento e gli chiedesse: — E tu che cosa hai fatto per me per esigere ch’io mi conformi al tuo volere? — Fuggì questo pericolo: — Io la saluto — disse gravemente. — Quando avrò riacquistata la mia calma potremo anche rivederci. Ma per lungo tempo è meglio che restiamo divisi.

Uscì, ma non senza averla ammirata per un’ultima volta pallida com’era, gli occhi sbarrati quasi per spavento, e forse indecisa se dirgli ancora qualche bugia per tentare di fermarlo. Lo slancio con cui uscì da quella casa lo portò lontano. Ma, sempre camminando con lo stesso aspetto di risolutezza, egli rimpiangeva amaramente di non poter vederla più a lungo nel dolore. Nelle orecchie gli si ripercoteva il suono d’angoscia ch’ella aveva emesso al vederlo allontanarsi, ed egli l’ascoltava per imprimerselo sempre meglio nella memoria. Bisognava conservarlo. Era stato il maggior dono ch’ella gli avesse fatto.

Il ridicolo non poteva più colpirlo. Non di fronte ad Angiolina stessa, almeno. Ella poteva essere quale si voleva, ma per lunghi anni si sarebbe ricordata di un uomo che l’aveva amata non col solo scopo di baciarla, bensì con tutta l’anima, tanto che una prima offesa fatta al suo amore l’aveva ferito in modo da rinunziare a lei. Chissà? Sarebbe bastato forse un ricordo simile per nobilitarla. L’angoscia nella