Pagina:Svevo - Senilità, 1927.djvu/121

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capì che il Balli doveva essersi ingannato su quel punto.

— Cioccolata! Io che non la posso soffrire! Cioccolata io! Presi un bicchierino di non so che cosa e neanche lo bevetti. — Ella metteva in questa dichiarazione tale energia che non avrebbe potuto impiegarne di più per asserire la propria perfetta innocenza. Era però visibile un certo suo tono di rammarico, quasi avesse deplorato di non aver mangiato di più giacchè quella rinunzia non era bastata a salvarla agli occhi di Emilio. Era proprio a lui ch’ella aveva fatto quel sacrificio.

Egli fece un violento sforzo per annullare quella nota falsa che gli guastava gli ultimi addii. — Basta! Basta! — disse con disprezzo. — Io non le dirò altro che questo: — le dava del lei per aggiungere solennità a quel momento — io le ho voluto bene e per questo solo fatto avevo il diritto di essere trattato altrimenti. Quando una ragazza permette ad un giovine di dirle d’amarla, ella è già sua e non più libera. — Questa frase era alquanto debole ma molto esatta, in un rimprovero amoroso anche troppo. Infatti egli non aveva altro diritto al quale appellarsi che il fatto di averle detto d’amarla.

Sentendo che la parola, causa il proprio spirito analitico, in quella situazione lo tradiva, ricorse immediatamente a quello ch’egli sapeva essere la sua forza principale: l’abbandono. Fino a poco prima, godendo della tristezza di Angiolina, aveva pensato di non lasciarla che molto più tardi. Aveva sperato in