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164 ATTO VANNUCCI - DISCORSO SU TACITO

rosa non può acquietarvisi mai, e in mille modi protesta contro quello stesso che crede irrevocabile. Egli, come bene fu detto, è Bruto che invece di uccidersi, per non vedere la vittoria di Cesare e la morte della Repubblica, ha il coraggio di vivere per consolare i suoi amici sopravvissuti, per ornare di lodi i morti, e per iscoprire tutte le vergogne dei vincitori.

Più considerava le cose del tempo suo, e più aveva ragioni da sospirare il passato e da temere per l’avvenire. Il governo di un solo aveva fatto da ogni lato tristissima prova: aveva spento nell’interno ogni virtù e ogni ordine buono, guasto ogni civile costume, tolta ogni sicurezza, fatto accrescere maravigliosamente i pericoli esterni. E questo gli dava travaglio maggiore: perocchè se non si poteva ricovrare la libertà antica, Tacito voleva almeno che si salvasse l’impero, e si mantenesse la promessa di eternità fatta a Roma dai fati. Ma il suo amore di patria e la sua fede al destino di Roma non erano bastanti a tenerlo tranquillo in faccia alla tempesta che fremeva minacciosa. La fortuna romana era giunta al suo colmo: ma chi doveva sorreggerla? Non più gloria d’armi e di capitani, non più virtù militare, non più senno civile: codardi e crudeli i principi, avviliti i cittadini. E all’incontro tremendi per forti virtù e per animi pronti a libertà e a morte apparivano i nemici di Roma ai limiti dell’impero. Un nuovo spirito di gagliarda vita agitava le nazioni compresse già dalla forza. I popoli cominciando a conoscere se stessi non più volevano dare il fiore di loro gente alla milizia romana, si rivoltavano contro i crudeli gravami. I barbari credevano che l’incendio del Campidoglio accennasse il finire dell’impero: i Druidi cantavano che quel fuoco fatale distruttore del tempio di Giove dava il segno dell’ira celeste, e pro-