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Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 1.djvu/156

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LIBRO TERZO 149

se n’andò quasi a pigliare aria in Terra di Lavoro, pensando voler fare stanza lunga e continua fuor di Roma, o per lasciare a Druso solo governare il consolato. E per ventura d’una cosa piccola, venuta in gran contesa, s’acquistò grazia il giovane. Domizio Corbulone, stato pretore, si dolse in senato che L. Silla nobile donzello allo spettacolo degli accoltellanti non gli aveva ceduto il luogo. L’età, l’usanza, i vecchi erano per Corbulone; per Silla, parenti suoi, e Mamerco Scauro, e L. Arunzio. Di qua e di là dicerie: esempi di gran pene antiche date a giovani non riverenti. Druso parlò molto acconcio al quietargli; e Mamerco, zio e patrigno di Silla, e di quella età facondissimo oratore, quietò Corbulone. Il qual facendo romore, che molte strade d’Italia eran rotte, e non abitevoli per misleanza de’ conducenti e tracuranza de’ magistrati, le prese a rassettare. Poco giovò al pubblico, e rovinò molti, a cui condannando e incantando, tolse crudamente beni e onore.

XXXII. Tiberio appresso scrisse al senato che Tacfarinata metteva di nuovo sozzopra l’Affrica; scegliessero un viceconsolo, soldato robusto, il caso a questa guerra. Sesto Pompeio, con questa presa di nimicare Marco Lepido, lo disse da mente, morto di fame, vergogna di casa sua; perciò non si mandasse in Asia, benché toccali per tratta. Il senato, per lo contrario, lo diceva benigno, e non dappoco: povertade, che non macchia gentilezza loda essere, non vergogna; così fu mandato in Asia, e rimesso in Cesare a cui dar l’Affrica.

XXXIII. Allora Severo Cecina disse per sentenza, che in reggimento non s’andasse con traino di moglie, avendo molto replicato, che questo suo volere