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Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 1.djvu/167

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160 DEGLI ANNALI


LII. Seguita il consolato di Gajo Sulpizio e Decio Aterio. Anno fuori quieto, in Roma sospetto di severa riforma alle pompe, e scialacqui di danari, a dismisurata trascorsi. Molte spese, benché grandissime, spesso si nascondevano nel frodare i pregi; ma le ricche imbandigioni e apparecchi della gola, tutto dì favellandosene, miser pensiero non gli volesse quel principe parco all’antica, ritirar duramente. Prima C. Bibulo, e poi gli altri edili sciamando: „La legge dello spendere si sprezza; i ricchi arredi vietati ogni di crescono; rimedi mezzani non servono: che da fare è?„ I Padri la rimisono in tutto a Tiberio. Egli un pezzo pensò, se rattenere tanta sfrenatezza di voglie sarebbe possibile, se più dannoso alla repubblica, che indegnità, por mano a cosa che forse non passasse, o, passata, i grandi disonorasse; finalmente compilò questa lettera al senato.

LIII. „Nell’altre proposte, Padri coscritti, forse è bene che io sia domandato, e dica in voce il mio avviso; questa è stata meglio sottratta dagli occhi miei, acciocché quei vergognosi scipatori, che voi vedete arrossare e temere, anch’io non vegga, e quasi colga in peccato. E se que’ prodi edili me ne domandavano, io forse li consigliava a lasciare anzi correre i vizj abbarbicati e cresciuti, che altro non fare che scoprire, come noi non bastiamo a stirparli. Essi hanno ben fatto l’uficio loro, e come io vorrei che ogn’altro magistrato facesse; ma a me non è onesto tacere, e non so che mi dire; perchè io non ho a far l’edile, né ’l pretore, né ’l consolo. Maggiori cose e più alte s’aspettano a principe: e dove, se un solo fa bene, ne li è ogn’uno tenuto;