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LIBRO QUARTO 217

cava farla morire per modo segreto: non ardiva in aperto.

LV. Cesare, per divertire questa voce, era sempre in senato, e molte udienze diede agli oratori dell’Asia, che disputavano qual città dovergli edificare il tempio conceduto. Undici ne gareggiavano con pari ambizione e forze dispari; allegavano quasi eguali antichità di loro nazioni, e servigi fatti al popolo romano nelle guerre di Perse, d’Aristonico e d’altri re; ma gl’Ipepeni, Tralliani, Laodiceni e Magnesi, ne furono rimandati, avendoci poca ragione; gl’Illesi la gloria sola dell’antichità, essendo Troia madre di Roma. Dubitossi alquanto sopra gli Alicarnassini, che da mille dugento anni in qua, tremuoto non avea scosso lor terreno, e fondavano in sasso vivo. A’ Pergameni, l’aver un tempio d’Augusto (che era la loro ragione) parve che dovesse bastare: e che pur troppo occupassero1 l’uficiature d’Apolline i Milesi, di Diana gli Efesj. Il giudizio batteva tra’ Sardiani e gli Smirnesi. Quei les-

  1. Perciò ha confermato santamente il Concilio di Trento le residenze de’ curati alle lor chiese. Di sopra nel 3 l. s’è detto de’ flamini. In su l’altare consagrato ad Augusto in Aragona essendo nata una palma, gli Aragonesi gli mandarono ambasciadori a rallegrarsi di questo segnale che le sue vittorie erano eterne. Questo è segnale, diss’egli, di quanto voi mi siate divoti, poiché nel mio altare, per non veder mai fuoco nè cenere, nasce la palma.

    Le mura che solieno esser badia,
    Fatte sono spelonche; e le cocolle
    Sacca son piene di farina ria.

    E il nostro poeta piacevole, primo, e sommo in piacevolezza.

    Non che tovaglia, e’ non v’è pur altare.