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222 DEGLI ANNALI


LXII. Nel consolato di M. Licinio e L. Calpurnio avvenne caso repentino, pari alle sconfitte delle gran guerre: ebbe insieme principio e fine. A Fidene, un certo Atilio, libertino, prese a celebrare lo spettacolo degli accoltellanti, e fece di legname l’anfiteatro male fondato di sotto e peggio incatenato di sopra; come colui, che tal negozio cercò, non per grassezza di danari, nè per boria castellana, ma per bottega. Roma era vicina, e Tiberio non la festeggiava. Per ciò vi corse popolo infinito, d’ogni età e sesso, avido di vedere; onde fu maggiore il flagello. La macchina, caricata si spaccò, e rovinando fuori e dentro, gl’infiniti spettatori seco trasse e i circostanti schiacciò. Morirono questi almeno senza martìro; più miserandi erano gli storpiati, che di dì vedevano e di notte udivano lor mogli e figliuoli urlare e piagnere. Corse chiunque

    coltura. La natura porge la materia rozza; la dottrina o l’arte le dà la forma. Ma nulla porgendolesi, non ha che formare. E se la natura non comparisce sul campo, l’arte non la può vincere. Unite insieme, vince la più eccipiente. Ambo perfette, fanno perfetta l’opra. Ma nel perfetto dicitore quale ha più parte? In voce, la natura, in carta, la dottrina. La voce con le ragioni aperte, riscaldale dal porgere, muove il popolo, a cui le dotte e sottili sarebbon perdute o sospette. Si come la somma diligenza nel finire le statue o pitture, che veder si deono da lontano, riesce stento e secchezza. La scrittura che si tiene in mano, e si esamina sottilmente dalli scienziati, riesce volgare, e non vive se non vi ha dottrina squisita e fatta, quasi oro brunito, risplendente dalla diligenza e fatica. Queste trovo essere state grandi ne’ grandi scrittori e artisti nobili, avidi e non mai sazi dell’eccelleuza e gloria. Lodovico Cardi, detto il Cigoli, giovane innamoratissimo della pittura, mi pare che li vada molto bene imitando.