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LIBRO QUINTO 237

Giulia angosciò tutti; e a far più saldo coll’infamia del castigo il terrore, onde sentissesi che v’era per gli altri, un dell’ordine equestre, già tutto di lei, dannò alla tromba. Seiano poi più intoralo per satire e finti decreti, e l’avidità di spie e delatori stuzzicata da’premj, i primi cospicui prese di mira, e ne fe’ scempio, peggio che in civil guerra. Tutto era colpa; l’allegria del riso, i lai de’ dolenti, i più semplici scherzi, fin degli ebbri i sensi. Non v’era quartiere; ogni destro coglieasi da incrudelire; e lesta morte, o vil supplizio, era de’ rei la comun sorte.

VIII. Mentre sì Roma a sua rovina infuria, Gerosolima d’un forfatto sì fe’rea, di mille altri pregno, e d’un’iliade di mali. Ponzio Pilato reggente di Cesare in Giudea, da codardìa, non da crudeltà, mandò a morte Gesù Cristo, di nuovo culto autore, contro i petulanti Giudei accusatori provato incolpabile. Tremuoti, eclissi, franti macigni, parvero vendicarne la morte e contestarne l’innocenza. Egli, scoperchiata la tomba a vista delle guardie, vivo e sano risortone, di sua divinità fe’gran prova. Tiberio tutto veggente, il ravvisò, nol seguì.

IX. Sol pace curando, in calma ei tenea l’impero, o da fortuna o da senno; chè mentre con una mano gemer facea oppressa Roma, spandea coll’altra la tranquillità per tutto nelle province; a premiar parco, vindice dei torti acerrimo, raro invido, ma in timor sempre d’un merito distinto, generali e magistrati impiegando, buoni, non ottimi; da spirito di despotismo più che di gloria.

X. Sendo Consoli M. Vinicio, e L. Cassio, il mortal odio di Tiberio contro Agrippina e i nipoti