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Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 1.djvu/396

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SUPPLIMENTO AL LIBRO DECIMO 389

tutto mosso a legar amistà, quattro Legati spedì sotto il capo Rachia.

XXXIII. Il ciel nostro, e lor ombre ammirando, ferono essi stessi l’ammirazion di Roma, curiosa di forestieri. Da lor si seppe: Far cinquecento città lor isola; Palesimondo la capitale con sua reggia, duecentomila anime, a verun soggetta; non dormirsi che a notte; porsi studio all’agricoltura; non v’esser viti, ma pomi in copia; aversi piacere a pesca, sovra lutto di testuggini, i cui gusci faccano i tetti delle case; queste esser basse; non salir mai di prezzo i viveri: non esservi fóro o liti: adorarsi Ercole; le feste passarsi in cacce; esser la più gustosa d’elefanti e tigri; farsi dal popolo il re, vecchio, clemente, senza figli, cui se poi abbia, deporsi a non far ereditario il regno; da quello darglisi trenta assessori; a voti de’ più spedirsi le sentenze capitali; l’appello farsi al popolo, che dà settanta giudici; liberando più di trenta di loro il reo, smacco grande essere a’ primi trenta che lor sentenza non valesse. La religion del re, quella del padre Bacco, degli altri esser l’araba. Reo il re punirsi di morte; non che s’uccida, ma fuggendol tutti; senza pur parlargli.

XXXIV. Gradironsi tai novità, e più, non senza invidia, l’udirsi la più corta vita esser ivi cent’anni; e l’isola d’oro e di margarite di cònio, abbondar più dell’India. L’Invidia scemò alquanto l’averli soci de’ vizi, e l’esaltar i Legati il lusso di Roma; confessando essi aver in pregio l’oro e l’argento, il marmo somigliar la tartaruga, stimarsi assai le gemme e le margarite migliori; aver essi più ricchezza, ma più uso far della loro i Romani.

XXXV. Tai cose in isola, fuor del mondo rile-