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Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 1.djvu/63

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56 DEGLI ANNALI

lunghe da ferire da discosto. La notte alla fine ritrasse da infelice mischia le legioni, che già piegavano. I Germani per tal prosperità non curando stracchezza nè sonno, tutte l’acque de’ circondati colli voltarono a basso, le quali copersero il terreno; rovinò il lavorio fatto, e le fatiche raddoppiò a’ soldati. Quarant’anni alla guerra aveva Cecina tra ubbidito e comandato: e come avvezzo a fortune e bonacce, senza perdersi, pensando allo innanzi, non trovò meglio che rattenere il nimico ne’ boschi, tanto che i feriti e gli altri impacci avviati, sgombrassono quel piano tra i colli e le paludi, che non capea battaglia grossa. Toccò alla legion quinta il destro lato, alla diciannovesima il sinistro, alla prima e alla ventesima capo e coda.

LXV. La notte non si dormì per cagioni contrarie; i Barbari in festa e stravizzi, con allegri canti o urli atroci, rintronavano le valli e’ boschi; i Romani con fuochi piccini, voci interrotte giaceano sotto i ripari, o s’aggiravano intorno alle tende con gli occhi aperti, anzi che desti: e per un sogno orrido s’arricciarono al capitano i capelli. Parevagli vedere Quintilio Varo uscir su di quelle paludi grondante di sangue, e dire: „Vienne„; ma non aver voluto, e la man portali, risospinto. A giorno le legioni poste alle latora, per codardia o miscredenza, lasciato il luogo, corsero all’asciutto. Arminio non le investì, come poteva in quel punto, ma l’istette. Si vide il bagaglio nel fango e ne’ fossi impaniato, i soldati intorno rinfusi, niuno riconoscer insegna, ciascuno, come in casi simili, di sè sollecito, e all’ubbidire sordo: all’ora fece dar dentro, e gridò: „Ecco Varo e le legioni di nuovo vinte per lo medesimo