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LIBRO PRIMO 61

tutti con parole e fatti innamorava di sè e della guerra.

LXXII. Il senato quest’anno onorò di trionfali insegne Aulo Cecina, L. Apronio, e C. Silio, per le cose con Germanico fatte. Tiberio rifiutò il nome di Padre della Patria, più volte dal popolo soffregatoli: nè si lasciò, come il senato voleva, giurare l'approvazione de’ fatti; le cose de’ mortali predicando incerte, e quanto più su salisse, più in bilico la caduta. Non perciò era creduto di civile animo; avendo rimesso su la legge della danneggiata maestà, detta ben così dagli antichi; ma altre cose venivano in giudizio. Chi col tradire un esercito, sollevar la plebe, mal governar le cose pubbliche, avesse menomato la maestà del popolo romano, accusato era del fatto; le parole non si punivano. Augusto fu il primo che fece caso di stato e maestà, i cartelli; mosso dalla malignità di Cassio Severo, che con essi aveva infamato uomini e donne di conto. Tiberio poscia domandato da Pompeo Marco pretore, se dovesse accettare le cause di maestà, disse: „Osservinsi le leggi„; inasprito anch’egli da certe poesie senz’autore, che sventavano le sue crudeltà e arroganze e traversie con la madre.

LXXIII. Io dirò pure di che peccati fur poste quèrele a Falanio e Rubrio, cavalieri di mezza taglia, acciò si sappia da qua’principj, con quant’arte di Tiberio, un crudelissimo fuoco si appiccò, ammorzò, poi levò fiamma, che arse ognuno. Diceva l’accusatore, che Falanio aveva messo tra’ sacerdoti di Augusto (che n’era in ogni cosa come un collegio) un certo Cassio strione, disonesto del corpo, e vendè la statua di Augusto, insieme col giardin suo.