Pagina:Tartufari - Il miracolo, Roma, Romagna, 1909.djvu/279

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immaginazione, i muri delle camerate bianchi di calce, le tavole strette e lunghe del refettorio, i corridoi deserti, il cortile affollato, i servi con grosse mani e ruvidi gesti.

— Ancora due anni - egli si disse ad alta voce, come per consolarsi; ma subito pensò che la sua impazienza di abbandonare il seminario era colposa, era sterile, perocchè l'intiera sua vita doveva trascorrere in solitaria astinenza.

Vanna entrò, aprì le cortine e si mise a ridere.

— Perchè ridi così? - egli le disse, mirando con gioia il colore azzurrino delle pareti, la cornice a intagli dello specchio.

— Perchè sei tu a farmi ridere. Oh! lo sciocchino! Guardati la cravatta - e lo condusse davanti allo specchio, ov'egli si vide con la cravatta annodata di traverso.

— Capisco bene che bisogna aiutarti, come quando eri piccino - e, aggiustatagli la cravatta, lo prese sotto braccio per condurlo a colazione.

Il portico era ancora tutto immerso nell'ombra, e intorno alle quattro colonne i rami del gelsomino rampicante si attorcigliavano, mandando profumi; il chioschetto verde, già nel sole, pareva uscito da un lavacro per l'umidore della rugiada.

— Come si sta bene - disse Ermanno, sorseggiando con lentezza il caffè e latte.

— Divinamente - Vanna assentì, e nemmeno la sfiorò l'idea, pur così ovvia, che quel benessere avrebbe potuto durare per lei fino all'ora della morte e ch'ella avrebbe potuto circondarsi