Pagina:Tartufari - Il miracolo, Roma, Romagna, 1909.djvu/333

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gli occhiali di Pericle Ardenzi brillava l'allegrezza di un ideale scientifico da lui vagheggiato e sul punto adesso di venir conseguito; sotto i risvolti fulvi della pelliccia gli batteva un cuore animoso, impaziente di spingersi alla conquista delle rovine per frugarle e trar loro il secreto di sepolte civiltà. Sin da ragazzo l'Oriente aveva fiammeggiato per lui a guisa di fiaccola e, sotto la fiamma ondeggiante, egli aveva scorto con occhio di passione mostri di granito dalle teste bifronti ornate di corna, colonne di porfido istoriate a caratteri cuneiformi, tombe di re dalle sonanti porte metalliche, reti di canali diventati aridi, terreni sabbiosi arsi di sete e coprenti città, dove cento e cento carri avevano trasportato in lunghe file mucchi d'oro pei favoriti, mozze teste di nemici. E adesso egli andava, armato della sua scienza, a strappare dalle fronti granitiche dei mostri secreti di anime spente; a ricostruire, interrogando i caratteri cuneiformi, la discendenza di qualche grandiosa dinastia, a seguire il corso intricato dei canali allo scopo di stabilire in che cosa il compasso di oggi è più sapiente del compasso adoperato in epoche per noi nebbiose.

Questo egli diceva a Ermanno, tirandosi la barba, stropicciandosi le mani, fra il rumore discreto delle seggiole smosse, ed Ermanno guardava, al di là della finestra, i secchi rami contorcersi ai capricci furiosi del vento, mentre i raggi scendevano lividi a orlare di tristezza la sommità della muraglia giallastra. Tutto