Pagina:Tartufari - Roveto ardente, Roma, Roux, 1905.djvu/11

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— Adriana è mia moglie — ripeteva a denti stretti Leone.

— Ti ha abbandonato; ti ha svergognato.

— Ma ella è sempre mia moglie!

Il conte Innocenzo e il conte Leone si allontanavano furiosi per diverse vie, e le porte sbatachiavano con violenza, e la voce stentorea del vecchio tuonava più fragorosa, più minacciosa per entro le stanze della casa bianca.

Il grido del nonno era stato dunque provocato certamente da una delle solite dispute; e Flora si accingeva ad alzarsi per tornarsene a casa, quando Balbina apparve, sbucando circospetta dalle foglie del canneto. Gli occhi di Balbina, chiari e tondi, eccessivamente sporgenti, scrutarono il viottolo, che si snodava serpeggiante dalla collina, e si volsero poi ad interrogare la strada maestra, che scendeva ripida dal castello di Novillani.

— Chi aspetti? — interrogò Flora, balzando agile in piedi e appoggiando l’esile dorso al tronco nodoso della quercia.

— Ah! sei qui? — interrogò a sua volta Balbina, mentre un’ombra di dispetto le passava per la faccia larga e piatta, intorno a cui si alzavano abbondantemente massicci i capelli color di rame.

— Già, sono qui — rispose Flora; e allungò le braccia con atto pigro, come di chi si desti da un lungo sonno.

— Dormivi?

— No, guardavo le nuvole!

Balbina si strinse beffarda nelle spalle.

— Bella occupazione! — ella disse.

— Bellissima! — rispose Flora, convinta, raccogliendosi a sommo del capo i ricciuti capelli