Pagina:Tartufari - Roveto ardente, Roma, Roux, 1905.djvu/37

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Flora si era sentita pungere da meraviglia paurosa, come se, camminando placida in fida compagnia, si fosse accorta che la mano da cui traeva sostegno la sospingeva verso l’orlo di un precipizio. Ma altre lettere, tutte saviezza e soavità, erano sopraggiunte a dissipare ogni ombra.

Il vecchio conte rimaneva estraneo a tale carteggio, trascorrendo il tempo seduto e curvo sotto la enorme cappa del camino, dove grossi ceppi ardevano perennemente, sorretti dai rustici alari.

Il conte Vianello, già così vigile, di cui gli occhi grifagni giravano instabili sotto le ispide sopracciglia a scrutare i volti ed i cuori, e di cui la voce tuonava nella minaccia o suonava breve e recisa nel comando; egli, di cui la volontà era stata, per settantanove anni, lucida e tagliente come una falce, e di cui la memoria era come uno specchio, dove il lungo passato si rifletteva integro e distinto, ora non aveva più sguardo, non aveva più voce; tra la sua memoria ed il passato una densa cortina era discesa; una densa cortina al di là della quale le vicende trascorse si agitavano in modo confuso, segnando appena qualche ombra fugace o qualche rapido ondeggiamento.

Durante i quattro mesi trascorsi, dall’istante in cui egli era scoppiato in singhiozzi al cospetto del cadavere di suo figlio suicida, pareva che l’ombra della notte, di una notte senza palpito di stelle e senza promessa di alba, si fosse avanzata dietro le spalle del conte e stesse già per avvolgerlo entro il mistero delle sue pieghe impenetrabili.

Flora, la quale andava leggendo le vite dei Santi in quell’ultima serata di carnevale fredda