Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/193

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144 parte

quali ei crede che debbano apparire. Io non ardisco decidere su tal contesa. Ma certo le lettere di Falaride a me si offrono in tal aspetto, ch’io non posso a meno di non dubitare assai della loro sincerità. Io non voglio negare, come altri ha fatto, che a’ tempi di Falaride fosse già introdotto l’uso di scriver lettere. Ma niuno, a mio parere, potrà provare giammai che ne fosse l’uso così frequente, come avrebbe dovuto essere se di Falaride fossero veramente le lettere a lui attribuite. Per ogni menoma cosa Falaride impugna la penna, e scrive. Sa che alcuno parla male di lui, ed egli gli scrive (ep. 2, 4, 9, 13, 14, ec.), e lo rimprovera e minaccia; scrive a un figlio, e lo esorta ad essere ubbidiente a’ suoi genitori (ep. 19, 20); scrive ad alcuni suoi privati nemici, solo per insultar loro col racconto de’ suoi felici successi (ep. 1, 85), e per maltrattarli colle più grossolane ingiurie (ep. 5, 123). Lettere di complimento, lettere di condoglienza, lettere di ragguaglio, ed altre somiglianti, s’incontrano ad ogni passo per tal maniera, che pare che Falaride, il quale pure altro doveva avere pel capo che scriver lettere, in altro quasi che in questo non si occupasse. Aggiungasi l’incostanza del carattere di Falaride, che in queste lettere or si fa vedere crudele, ora pietoso, or magnanimo, or vile. Aggiungasi per ultimo la maniera stessa di pensare e di scrivere, che a me sembra certo propria di un sofista che cerca di esprimere con ingegno qualunque sentimento gli si offre al pensiero, ma non mai di un tiranno, il quale scrive