Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/242

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libro primo 193

Romani adduce l’ab. le Moine, tratta dalle belle parlate dei re, de capitani, de’ magistrati, che Dionigi Alicarnasseo, Livio ed altri hanno nelle loro storie inserito. Vi ha forse chi non sappia essere parer comune tra’ dotti, che quelle parlate furono dagli storici stessi composte come più loro piacque?


Romolo avea loro vietato l'apprendere le scienze. III. Non vi ha dunque argomento alcuno a provare che ne’ primi cinque secoli fiorissero le scienze in Roma, anzi Dionigi Alicarnasseo chiaramente ci mostra che Romolo vietato avea a’ Romani il coltivarle: Romulus, dice egli (l. 2, c. 28), artes sedentarias ac illiberales ... servis et exteris exercendas dedit; et diu apud Romanos haec opera habita sunt ignominiosa, nec ullus indigena ea exercuit; duo vero studia sola ingenuis hominibus reliquit, agricultram et bellicam artem. E che questa legge di Romolo durasse lungamente nel suo vigore, più chiaro ancora vedrassi dalla storia de’ tempi seguenti, ne’ quali vedremo ciascheduna scienza avere la prima origine e cominciare, talvolta ancora non senza contrasto, a introdursi in Roma. Egli è vero che, come detto abbiamo nella prima parte di quest’opera, solevano in questi primi tempi i Romani nell’etrusche lettere istruirsi (V. sup. p. 13). Ma benchè uomini colti fosser gli Etruschi, il veder nondimeno che i Romani la loro superstizione appresero solamente e non il loro sapere, ci dà motivo di credere che la scienza degli augurii, degli auspici e di altre somiglianti superstiziose osservazioni fosse la sola scienza etrusca di cui andassero in cerca i Romani.