Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/315

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266 parte terza

compiacerla, perciocchè ella è questa più che altra mai impresa, come tu stesso giudichi, degna di un oratore. Per la qual cosa accingiti di grazia, e prendi il tempo opportuno a scrivere in tal materia che da nostri maggiori è stata o trascurata o sconosciuta. Perciocchè dopo gli Annali de’ Pontefici Massimi, di cui non può esser cosa più disadorna e digiuna (leggesi comunemente nihil.... jucundius; ma altri più probabilmente leggono nudius, o jejunius), se tu ti volgi o a Fabio o a Catone, che tu sempre hai sulle labbra, o a Pisone o a Fannio o a Vennonio, benchè abbiano, qual più, qual meno, qualche eloquenza, non vi ha nondimeno scrittor tenue ed esile al pari di tutti questi. Celio Antipatro, che fu di tempo vicino a Fannio, gonfiò alquanto lo stile edebbe qualche eloquenza, ma rozza e agreste, senza studio e senza coltura; potè nondimeno servir di stimolo agli altri, perchè con maggior diligenza scrivessero. A lui succederono Gellio, Clodio, Asellione, i quali, non che imitare o superar Celio, tutta ritrassero ne’ loro scritti la languidezza e l’ignoranza degli antichi scrittori. Debbo io qui forse mentovare Azzio? la cui loquacità non è talvolta priva di vezzi, ma non già presi dalla colta eloquenza de' Greci, ma sì da’ nostri copisti: nelle orazioni poi egli è prolisso e importuno fino alla impudenza. Sisenna amico di Azzio ha superati a mio parere tutti i nostri scrittori di storia, seppur non ve hha di quegli i cui scritti non siano ancor pubblicati, de’ quali non posso or giudicare. Ma nè egli ebbe luogo nel numero degli oratori, e