Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/425

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376 PARTE TERZA coltivato: e spesso amendue le cose faceva nel giorno stesso. Due cose all’eloquenza utilissime furon da lui prima di ogni altro introdotte, il dividere in certi punti la materia di cui doveva trattare, e il farne alla fine un breve epilogo. Colto, armonioso, eloquente nel favellare, ogni cosa comprendeva dapprima col suo pensiero; poscia ingegnosamente la divideva; e non eravi riflessione a provare il suo assunto, o a ribattere l’avversario opportuna, ch’egli ommettesse. La voce per ultimo anch’essa canora e dolce, e il movimento, il gesto, il portamento tutto più ancora che a un oratore sia necessario, artificioso e studiato. VII. Tal è il carattere che dell’eloquenza d’Ortensio ci ha lasciato Cicerone, il quale però io non so se abbia per avventura cercato d’innalzar così maggiormente la vittoria eli’ egli avea sopra lui riportata. Egli che essendo più giovane vedeva ne’ suoi primi anni l’universale applauso di cui Ortensio era onorato, confessa che da un tale esempio si sentì vivamente sospinto a intraprendere la carriera medesima (ib. n 92). Ma al primo intraprenderla che egli fece, la gloria di Ortensio cominciò ad oscurarsi e a svanire. In due delle prime cause, cioè in quella a favor di Quinzio e in quella contro di Verre egli ebbe a suo avversario Ortensio, e in amendue lo vinse, e nella seconda singolarmente gli fu superiore di tanto, che il reo non volle pure aspettare l’esito del giudicio, ma andossene spontaneamente in esilio. Altre volte trovasi Ortensio a trattar le medesime cause con Cicerone, or