Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/471

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422 PARTE TERZA genere di eloquenza che da Pollione e da’ suoi imitatori fu introdotto, si fosse preso ad usare a’ tempi della Repubblica, il popolo che era in Roma il più giusto ed imparziale giudice della vera eloquenza, avrebbe co’ fatti mostrato quanto fosse superiore all’eloquenza di Pollione quella di Tullio; e i nuovi oratori avrebbono dalla sperienza loro medesima appreso che ad essere arbitro della Repubblica conveniva seguir le vestigia di Cicerone. Ma il sistema del governo era cambiato; i grandi affari regola valisi secondo il volere dell’impera dorè; e il popolo più non avea che un’ombra apparente di libertà e di potere; nè era perciò in istato di dare pubblicamente a conoscere qual genere d’eloquenza fosse il più opportuno a muoverlo e a piegarlo. In secondo luogo, il mostrarsi seguace e imitatore di Cicerone, cioè di un uomo che della pubblica libertà erasi sempre mostrato tanto zelante, di un uomo il cui nome e la cui eloquenza rimproverar doveva ad Augusto la suprema autorità da lui usurpata, di un uomo per ultimo di cui egli avea permessa, o fors’anche voluta la morte, non era cosa che si potesse credere cara ad Augusto; e quello spirito d’infingimento e di adulazione che a questo tempo cominciò ad introdursi in Roma, e che tanto poscia si accrebbe sotto i seguenti imperadori, dovette probabilmente condurre gli oratori a tenersi lontani dall’imitazione di Tullio, di cui non credevasi cosa sicura il favellare con lode, ed a seguire in vece gli esempii di Pollione e di altri di lui seguaci.