Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/524

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LIBRO TERZO 4^5 dubitasse, senza pur dire qual opinione verisimile fosse, o probabile. A questa setta dunque si appigliò Cicerone, come egli stesso in più luoghi si dichiara, singolarmente ove dice (Tusc. Qu. l. 1, n. 9): Geram tibi morem, et ea, (qua,vis ut potero, explicabo; non tamen quasi Pythius Apollo, certa ut sint ea et fixa, quae dixero, sed, ut homunculus unus e multis, probabilia conjectura sequens. Ultra enim quo progrediar, quam ut videam verisimilia, non habeo. E altrove (Orat.n.71): Sed ne in maximis quidem rebus quidquam adhuc inveni firmius quod tenerem, aut quo judicium meum dirigerem, quam id quodcumque mihi simillimum veri vederetur, cum ipsum illud verum in occulto laleat. Vili. Ma quali erano le sentenze che a Cicerone sembravan probabili e verisimili? L’esistenza della Divinità, l’immortalità dell’anima, la provvidenza sovrana ammettevansi elleno da Cicerone come probabili, o rigettavansi come improbabili? Questo è ciò appunto che non è sì agevole a diffinire; e se riflettiamo a diversi passi delle sue opere, pare che Tullio stesso non avrebbe potuto determinare che cosa ei si credesse. Di fatto altri pongon Cicerone tra gli Atei; e trovano ne’ suoi libri tai sentimenti che spirano il più puro e il più libero ateismo. Altri li ripongono tra’ più zelanti difenditori della religion naturale; ed essi ancora confermano l’opinion loro colle parole stesse di Cicerone. A spiegare una sì grande contrarietà di sentimenti e di espressioni, convien riflettere a ciò che dice S. Agostino, essere stato Vili. E pai la perciò diversamelile ili di* vcnr occasioni.