Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/611

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003 PARTE TERZA di’ egli ce ne olire, il peggio si è che egli non e.(.Iole clic nell adottarne gli errori, ove alcuno ne hanno commesso que’ dotti scrittori; nel rimanente egli travolge a suo piacere i lor sentimenti, e con sicurezza maravigliosa ci narra cose che evidentemente son false. Ne sia prova cio ch’egli ne dice di Plozio (t. 1 p. 12, ec.). Egli afferma che la Gallia. Narbonese fu la sua patria, e ciò senza alcun fondamento; che la gloria che ei s’acquistò nella professione di retore, gli ni rito il soprannome if Insigne conseivalogli da Quintiliano; e Quintiliano, come abbiamo veduto, non dice già ch’egli avesse un tal soprannome, ma che tra’ retori di quel tempo ei fu singolarmente insigne. Aggiugne che Cicerone si duole di essere stato privo delle sublimi lezioni di Plozio; e Cicerone, come abbiamo veduto, non ha mai chiamato sublimi le lezioni di questo retore; che Plozio terminò la sua carriera nell’oscurità di una vecchiezza coperta di gloria e di malattie; e Svetonio altro non dice, se non che diutissime vixit; e della oscurità, della gloria, delle malattie nè egli nè altro antico autore non fa parola; che Quintiliano parla col maggior elogio che sia possibile del libro scritto da Plozio intorno al gesto: e Quintiliano non dice altro se non che Plozio scrisse di tal argomento, e non aggiugne alcun motto di lode: Qui de gestu scripserunt circa tempora illa, Plotius Nigidiusque. Ma l’esattezza di questo autore si dà a vedere singolarmente in questo passo ch’io qui recherò colle sue parole medesime, perchè non credasi ch’io ne travolga