Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo II, Classici italiani, 1823, II.djvu/93

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era a giunte alle più lontane estremità della terra. Cessate omai le interne sanguinose fazioni, godevasi in Roma una dolce e sicura tranquillità. Se la eloquenza era già assai decaduta, ciò più che al cambiamento de’ tempi doveasi, come si è dimostrato, al capriccio degli oratori. Tutti gli altri studi erano in Roma saliti a tal perfezione, a cui in tempo della repubblica non eran giunti giammai. E se Augusto avesse avuti successori a lui somiglianti, si sarebbon forse compiaciuti i Romani di aver cambiata la repubblica in monarchia. Ma dopo la morte d’Augusto si aprì una scena troppo diversa. Sette imperadori saliron I1 un dopo l’altro sul soglio, de’ quali è malagevole a diffinire chi fosse il peggiore. Vespasiano e Tito parvero richiamare i lieti tempi d’Augusto. Ma Domiziano rinnovò presto gli orrori de’ Tiberj, de’ Caligoli e de’ Neroni. Ciò ch’è è più strano, si è vedere il senato romano che alcuni anni prima dava la legge a’ più possenti monarchi, e donava e toglieva imperiosamente le corone e i regni, ora cadere avvilito e strisciare, per così dire, a’ piedi de’ nuovi sovrani, e render divini onori a coloro di cui tacitamente esecrava la brutal! crudeltà. Così, dice il celebre Montesquieu (Grand, et Décad. des Rom. c. 15), il senato romano non avea fatti dileguare tanti sovrani che per cadere esso medesimo nella più vile schiavitudine di alcuni de’ suoi più indegni concittadini, e per distruggersi co’ suoi proprj decreti. Or in uno Stato in cui la felicità e la sorte degli uomini dipendeva non dalle sagge disposizioni di un regolato governo.