Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo III, Classici italiani, 1823, III.djvu/202

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SECONDO I^I petiuta de Longobardi non fu già il più picciolo quello d’essersi introdotta ima fiera ignoranza fra i popoli, e i essere andato in disuso lo studio delle lettere; perchè oltre all’aver que’ Barbari prezzate solamente Vanni, le genti italiane tra i rumori e guai delle continuate guerre altra voglia aveano, che di applicarsi agli studj, oltre alV essere loro ancora mancati buoni maestri. X. Le cose che dette abbiamo finora, e la condizione infelice in cui abbiam dimostrato che trovossi allora l’Italia, bastano a farci intendere facilmente a quale stato venissero a questo tempo le scienze e gli studj. Ma ci conviene esaminarlo più esattamente, e vedere a qual segno giugnesse allor l’ignoranza. Di scuole pubbliche e di pubblici professori di eloquenza, di filosofia, di legge e di altre scienze in Roma io non trovo in quest’epoca menzione alcuna. Anzi abbiamo poc’anzi udito il pontefice S. Gregorio fra le altre sciagure di quella infelice città annoverar questa ancora, che più non vi era chi da paesi stranieri venisse a Roma , come usavasi ne’ tempi addietro, singolarmente affine di coltivare le scienze. Uno o due esempj di stranieri venuti dalla Brettagna a Roma, che reca il P. Caraffa (de Gymn. Rom. vol. 1, p. 109), non bastano perchè ne formiamo un diverso giudizio; molto più che non parmi abbastanza provato che da desiderio di letteratura movessero cotali viaggi. E certo la descrizione che il medesimo S. Gregorio ci fa dello stato in cui Roma allora trovavasi, di leggeri ci persuade che gli studj vi fossero quasi interamente