Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo IV, Classici italiani, 1823, IV.djvu/270

Da Wikisource.

SECONDO a4o a stupire che le versioni fosser poco felici. Già abbiam veduto nel primo tomo di questa Storia qual guasto soffrisser le opere d’Aristotele fin da’ tempi più antichi, e da quante mani esse venisser corrotte. Or quanto più dovette ciò avvenire nella barbarie de’ secoli susseguenti, quando i copiatori erano per lo più ignoranti, e scrivevan ciò che punto non intendevano? Qual maraviglia adunque che di un testo sì guasto si facesser sì misere traduzioni, e che le vere opinioni di questo ingegnoso filosofo si cambiassero spesso o in oscurissimi gerghi, o in grossolani errori? A ciò aggiungasi la sottigliezza e le speculazioni degli Arabi che nuove tenebre aggiunsero agli scritti di Aristotele; e non rimarrà luogo a stupire di ciò che molti affermano, e che parmi certissimo, cioè che non possiam esser sicuri che Aristotele sentisse veramente ciò che sembrano indicarci le opere che di lui abbiamo, e che anzi possiam credere con fondamento che in molte cose egli avesse opinioni del tutto contrarie a quelle che sembran da lui sostenersi. VU. Ciò che abbiam detto del comando fatto da Urbano a S. Tommaso d’interpretare le opere di Aristotele, basta a mostrarci che non avea ragione il Launoio di maravigliarsi (De Arist. Fortuna c. 7) che questo santo, benchè professore dell’università di Parigi, e benchè sì ubbidiente ai pontificj decreti, ardisse nondimeno di comentare un filosofo i cui libri da’ romani pontefici erano stati proscritti. Questa proibizione non avea luogo, come già abbiamo osservato, che nella università di Parigi; e ancorchè ella