Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo IV, Classici italiani, 1823, IV.djvu/656

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TERZO 635 e maravigliosa rabbia <£ accrescere i suoi con ricchezze da ogni parte, tirate, per torre ad Arrigo (quel beneficio, e darlo a’ suoi parenti, contro a esso Arrigo prese guerra immortale; donde prolungandosi molto la causa, avendovi già Arrigo consumato il patrimonio, costringendolo la povertà, fu necessario di cedere e per conseguenza poi andare mendicando, onde poi piangendo la sua infortuna compose un operetta che comincia: Quomodo sola sedet. Questo è in fatti l’argomento del poema elegiaco di-Arrigo, ch’egli perciò volle intitolare: Dell’inconstanza della Fortuna, e della consolazione della Filosofia; perchè in esso piange le sue sciagure, e introduce la Filosofia che lo consola. Ch’ei fosse ridotto all’estremo delle sciagure, raccogliesi chiaramente dalla patetica descrizione che più volte egli ripete dell’infelice suo stato. Rechiamone alcuni versi: Cui de te, Fortuna, querar? cui? Nescio. Quare Perfida me cogis turpia probra pati? Gentibus opprobrium sum, crebraque fabula vulgi; Dedecus agnoscit tota platea meum. Me digito monstrant; subsannant dentibus omnes. Ut monstrum monstror dedecorosus ego. ib. v. 3, ec. Così egli prosiegue raddoppiando gemiti e lamenti, e prorompendo ancora talvolta in disperate maledizioni. Ma per quanto egli si dolga, non vi ha un passo in tutto questo poema di mille versi, da cui si raccolga qual fosse, e donde movesse la sua sciagura. Anzi a me pare ch’ei dolgasi più del disonore che soffre, che della povertà a cui si trova condotto. Quindi