Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo V, parte 1, Classici Italiani, 1823, V.djvu/66

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PRIMO 29 del figlio. Il che nè io affermo ora, nè allor l’affermai come vero, ma ne correa voce; e ciò aveami vietato il pur pensare ad offerirmi a quella corte. Udita tal cosa quell animo generoso sdegnossi e inorridì , e dopo un breve silenzio, fiso in terra lo sguardo, e altamente commosso, come ben gli si leggea nella fronte (perciocchè ho ogni cosa presente quasi ancor la vedessi) levò il capo, e, Tal è, disse, il costume degli uomini: così varj sono i giudizj loro e i loro sentimenti. Io quanto a me vi giuro che assai più dolci e più care mi sono le lettere, del regno stesso; e che se dovessi perdere o le une o P altro, assai più volentieri io rimarrei privo del diadema che delle lettere. O detto filosofico veramente e degnissimo della venerazione di tutti i dotti, quanto mi piacesti tu! e qual nuovo stimolo mi aggiugnesti allo studio?! O quanto profondamente mi rimanesti scolpito in seno?! Ma dello studio di Roberto basti il detto fin qui. Che dirò io del sapere? Que’ medesimi che o per odio, o per desiderio di maldicenza cercano di diminuirne le lodi, non gli contrastano quella della dottrina. Egli peritissimo nelle sacre Scritture, egli espertissimo ne’ filosofici studj, egli egregio oratore, egli dottissimo nella medicina, solo la poesia coltivò leggermente, di che, come gli ho udito dire, si pentì in vecchiezza. Degna parimente d’esser letta è la lettera che il Petrarca gli scrisse, dappoichè ebbe ricevuta la laurea in Roma (Petr. Op. t. 3 , p. 1 a52, ed. Basil. 1554), in cui più ampiamente ancora rammenta la regia munificenza e la singolar bontà con cui Roberto