Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo VII, parte 3, Classici italiani, 1824, XII.djvu/532

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l684 LIBRO sollievo a’suoi mali, che quello di coltivare la poesia, e di conversare cogli eruditi, de’ quali era allora, sì gran copia in quella città. La casa del Veniero era come un' accademia di dotti che ivi si raccoglievano, e or poetando, or disputando, or occupandosi in piacevoli ragionamenti passavan più ore, e rendevan meno sensibili ad esso i mali che il travagliavano. Quindi l’Aretino, scrivendo nel maggio del 1548 a Domenico Cappello, come testifica, dice Lettere, l. 4, p. 274)7 l'Accademia del buon Domenico Veniero, che in dispetto della sorte, che il persegue con gli accidenti delle infermità, ha fatto della ornata sua stanza un tempio, non che un ginnasio. La qual lettera scritta, come si è detto, nel 1548 mi persuade che la malattia del Veniero cominciasse prima del tempo fissato dall’ abate Serassi. Tra i frutti che da queste adunanze si vennero raccogliendo, fu la fondazione della celebre Accademia veneziana, di cui si è parlato a suo luogo, la quale, dopo il Badoaro, riconobbe nel Veniero il suo autore e il suo principale ornamento. In mezzo a’ suoi acuti dolori scrisse il Veniero la maggior parte delle sue Rime, ed è cosa di maraviglia che in sì infelice stato potesse sì leggiadramente poetare. La vivacità delle immagini e la forza delle espressioni è in lui singolare. Ma egli abusa talvolta del suo ingegno medesimo, e convien confessare che alcuni de’ sonetti del Veniero si crederebbono scritti nel secolo XVII. Ei fu il primo per avventura, dopo il risorgimento della poesia, a far uso degli acrostici, come si vede ne’ due sonetti fatti in lode di Paolina