Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo VII, parte 4, Classici italiani, 1824, XIII.djvu/293

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TERZO 2255 tante sue opere fatto un cenno di tanto onore, egli che tante altre sue cose di assai minor conto rammenta con sì gran fasto? Il mio argomento è negativo, ma parmi che abbia forza al par di qualunque più forte pruova. Innoltre il re Luigi XII nel diploma della laurea a lui conceduto, di cui tra poco diremo, non avrebbe taciuto un tal merito dello Stoa; e la voce benemerita ivi usata è troppo generale, perchè possa credersi usata per disegnare sì grande onore. Che se pure si volesse ad ogni modo che lo Stoa fosse maestro di Francesco I, converrà differirne l’epoca circa l’anno 1513, poichè, come si è detto, prima d’allora lo Stoa non fu in Francia. Ma a quel tempo Francesco non era ormai più in età che sofferisse di avere a fianco un pedante. La cattedra da lui sostenuta nell’università di Parigi, e molto più quella di rettore della medesima a lui conferita , parmi ancor più dubbiosa che il magistero accennato. Il sig. Nember a provare la prima , si appoggia alla lettera con cui lo Stoa dedica le sue Epografie a’ figli di Jafredo Carli presidente del Delfinato e del Milanese, in cui dice che per favore del padre loro, in età di ventitré anni, cioè nel 1507 avea cominciato ad essere pubblico professore. Ma si rifletta che il Carli era in Milano, ed avea ivi tutta l’autorità, niuna ne avea in Parigi. In Milano adunque, o in Pavia, e non già in Parigi, dovea esser la cattedra dal Carli assegnata allo Stoa. È vero che questi in altro luogo, citato dal sig. Nember, dice: Nam in Gallia public e pròfessus sum (Mirandor. p. 21). Ala ancorché