Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo VIII, parte 2, Classici italiani, 1824, XV.djvu/136

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66o LIBRO addietro accennnti usano d’uno stil tronfio e vizioso , essi almen c’istruiscono co’ lumi che spargono o sul regno della natura, o sulle vicende de’ secoli. Ma ora dobbiam parlar di scrittori a’ quali se mancan le grazie dello stile, manca il migliore e quasi l’unico pregio de’ lor lavori. Un teologo, un filosofo, un matematico, un medico, uno storico che scriva male, si legge con dispiacere e con noia, ma pur si legge con frutto. Ma un poeta incolto e rozzo a che giova egli mai? E nondimeno pur troppo dobbiam confessare che fra’ poeti di questo secolo il maggior numero è di quelli le cui poesie or non possono aver altr’uso che di servir di pascolo alle fiamme o alle tignuole, o d’esser destinate anche a più ignobile uffizio. Ma dovrò io rinnovare in certo modo la piaga che il reo gusto fece allora all’Italia, col far menzione di tanti inutili poetastri da’ quali ella fu innondata ed oppressa? Nè io ho coraggio a farlo, nè ove pure l’avessi, potrei sperarne lode ed applauso da’ lettori di questa Storia. Si giaccian essi dunque dimenticati fra quella polvere a cui sono or condennati. Io invece mi studierò di mostrare che, benchè quasi tutta l’Italia andasse follemente perduta dietro a quel falso lume che tanti e tanti sedusse, il numero però di coloro che non si lasciaron travolgere dalla corrente, non fu sì scarso, come da molti si crede; e che anche nel secolo XVII non fu del tutto priva l’Italia di leggiadri ed eleganti poeti. Solo perchè le infelici vicende della letteratura ugualmente che le gloriose da un sincero e imparziale storico debbono