Pagina:Torriani - Tempesta e bonaccia, Milano, Brigola, 1877.djvu/182

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«E tutto il conforto, tutta la dolcezza che m’avea posta nell’anima la soave intimità di quel saluto, dileguarono a quelle parole.

«D’allora egli fu sempre assiduo presso il babbo come lo era stato durante la mia lontananza. Quando li vedevo uscire insieme, e Gualfardo si metteva un braccio del povero babbo intorno al collo, e lo cingeva alla vita per sorreggerlo nello scendere la scala, poi entro la carrozza gli accomodava i cuscini, e mi salutavano tutti e due dalla finestra dove correvo per vederli ancora, pensavo con dolore che io era estranea a quel cuore che mio padre credeva mio, che non m’era più data la suprema delle gioie di rendergli una vita d’amore in compenso della sua generosa devozione.

«A misura che lo vedevo così nobile, così buono, la memoria di Max diveniva più scolorita nella mia mente. Ed in quell’atmosfera di affezioni calme, legittime, sante, il mio amore per Max mi sembrava un romanzo, una follia. E ne arrossivo ogni giorno più. Mentre prima lo avrei gridato sui tetti, ora mi vergognavo di ripensarci io stessa. Era perchè il mio cuore si apriva per la prima volta ad un sentimento basato su qualche cosa di serio, di grande. Ad un amore inspirato dalla riconoscenza figliale, dalla virtù. Dinanzi a questi due nobili moventi, cos’erano più la bella voce ed il carattere bizzarro di Max?