Pagina:Torriani - Tempesta e bonaccia, Milano, Brigola, 1877.djvu/183

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«Quante lagrime ho sparse in quelle ore tristi in cui rimanevo sola a rassettare la stanza del mio povero babbo, a rifare quel letto, ad accomodar quei guanciali, dove pur troppo tra poco non riposerebbe più!

«Poi tornavano; rivedevo quelle cure amorose dell’elegante giovane pel povero vecchio infermo, e quelle attenzioni delicate, figliali, che mi inondavano l’anima di riconoscenza e d’amore, e ricevevo ancora il suo bacio, il saluto soave e fatale, come l’oppio che inebria ed uccide.

«Ne venni al punto d’attendere, d’invocare ansiosamente quelle ore di disperante commedia; di accogliere con passione quel bacio convenzionale, di valermi del vantaggio della nostra strana situazione per stringere al mio cuore quell’uomo che non mi amava più, per serrare la sua mano tra le mie, per parlargli come ad un fidanzato, per pascere il mio cuore innamorato con una cara e funesta illusione.

«Nessuno, al vederci così uniti nell’affetto, nella cura comune d’un caro infermo, che entrambi chiamavamo babbo, nessuno avrebbe sospettato mai che tempesta mi fervesse nell’animo e che abisso ci separasse.

«Intanto la malattia del babbo procedeva rapida, inesorabile. Gli si eran gonfiate le gambe, le mani, il volto; omai non usciva più, ed a stento ci riesciva