Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/318

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atto quarto.—sc. iv. 313

Leggi e concordia all’itale contrade;
E vidi quelle leggi esser l’acciaro,
Quella concordia l’ammutir del vile.
Ciò vidi, e allor di sogni esser ludibrio
Più non mi piacque. Di virtù il linguaggio
Conobbi esser di tutti; virtù vera
Di niun.... T’acqueta, volli dir di pochi,
De’ soli forti che alle umane fere
Pongono il morso, e lor malgrado al bene
Lo traggono.
Leoniero.                    Che intendo?
Enzo.                                        A mie parole
Malvagio senso non prestar: l’ardito
Dire appartiensi a’ forti, e tai noi siamo.—
Ardente d’amor patrio io ritornai,—
Altri il come narrotti, — alla nativa
Terra ove i consueti abborrimenti
Regnavano e le stragi. Angiol di pace
Mi salutàr patrizi e volgo; il ferro
Consolar cinsi, e di virtù miei novi
Principii esercitando, con stupore
Universal, tutto fu in breve pace.
Leoniero.E Auberto e Arrigo dall’error novello
Trarti vollero allora. Evvi di morte
Una quïete che antepor non debbe
Ad agitata vita il cavaliero.
Voce solenne è di natura: «A vita
Dritto ha nascendo l’uom.» — Io in Orïente,
Ove per molti regni errai captivo,
Quella feral quïete inorridendo
Spesso incontrai. Per alte gare il sangue
Non fiumeggia ivi; ma più degna il versa
Causa o più rara almeno? Un furibondo
Accenna, ed a quel cenno orrende guerre
Fan del regno un deserto, e in quel deserto
Nome d’eroe non ode il passeggiero.
A turpi guerre turpe abbattimento
Quindi consegue; e pace è quella? — Oh figlio!...