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prefazione | xvii |
Io ho aggiunto spesso la rima. Non esiste, come tutti sanno, nel testo greco. Peró, quando le strofe erano musicate, il fine dei versi e dei periodi era certo distinto dalle cadenze, che sono appunto le rime del discorso melico. La nostra rima non è forse inutile a restituire quella ulteriore armonia perduta con la perdita della musica.
E qui bisogna risolvere un altro equivoco. Sin dall’antichità, la poesia di Eschilo fu caratterizzata come dura, aspra, rupestre. Aristofane l’adombrava con questi versi (Rane):
Scotendo della giubba natía le folte chiome,
rotando orrido il ciglio, dal labbro digrignante
l’uno avventa compagini ferree di motti, come
tavole una tempesta con soffio da gigante.
E tale è difatti Eschilo. Ma per l’arditezza e la stranezza delle immagini, per i voli e gli scorci dei concetti, per la libertà fiera nel coniare i vocaboli. Ma questa durezza o asprezza o come vogliate chiamarla, non si estende e non àltera l’armonia del verso. Il suo trimetro giambico, il verso quasi costante delle parti drammatiche, è fra i piú pieni rotondi armoniosi che noveri la poesia greca: piú dei trimetri di Sofocle, piú di quelli di Euripide, che si sbilanciano, gli uni e gli altri, per la copia di battute irrazionali, utili, d’altronde, alla spigliatezza del dialogo, e via via progredienti con l’accentuarsi del carattere drammatico. E persino i cori, che molti vagheggiano come profondi abissi di armonie trascendenti ed ermetiche,