Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) I.djvu/300

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IONE 231

E se troppo io, sacrificando ai Numi
genetliaci indugio, a banchettare
comincino gli amici». Ed i vitelli
prese, e partí. Solennemente il giovine
eresse, senza adoperar mattone,
del padiglione le pareti, sopra
pali diritti, calcolando il campo
del sole a punto, che, né verso i raggi
di mezzogiorno fosse esposto, né
a quelli di ponente; e la misura
prese d’un plettro, a forma di rettangolo,
cosí che l’area, per usare il termine
degli architetti, era di cento piedi;
ché tutto a mensa ei convitar voleva
il popolo di Delfo. E poscia, tratti
dall’arche i sacri paramenti, oggetto
di meraviglia a tutti, ombrò la tenda.
Sul tetto pria l’ala di pepli stese,
doni votivi del figliuol di Giove,
spoglie ch’Ercole offrí, tolte alle Amazzoni,
al Nume Febo. Ed intessute v’erano
queste figure. Un ciel che nella spèra
dell’ètra tutti radunava gli astri.
Elio volgeva alla postrema fiamma
i suoi cavalli, e si traeva dietro
la bianca luce d’Espero. La notte
dal negro peplo il suo carro spingeva,
senza redini al giogo; eran compagni
gli Astri alla Dea. Correvano le Plèiadi
a mezzo l’etra, ed Orïon, che il ferro
stringeva; e sopra, all’aureo polo intorno,
l’Orsa volgea la coda; e dardeggiava
dall’alto il disco della calma Luna