Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) I.djvu/8

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PREFAZIONE VII

novazione consisteva nella pura e semplice forma drammatica. La materia mitica aveva già trovata una veste di parole melodizzate nell’epica; una seconda nei canti corali: ora poteva essere rievocata con evidenza veramente emula della realtà, mediante i personaggi vivi e favellanti, e mediante tutte le risorse di un’arte che, se già aveva fatti alcuni passi, si trovava ancora, essenzialmente, nel periodo dell’infanzia.

E non c’erano elementi di dubbio e di discussioni. Ufficialmente accettati erano tanto i fatti, quanto la filosofia dei fatti, imperniata sulla Anànke, sulla Mòira, e sulla mediata ma immensa potenza dei Numi.

Il suo cómpito consisteva dunque nel ripetere, con forma eletta, e con sintesi stilistica, ciò che tutti narravano, tutti credevano, tutti giudicavano a un modo.

E neanche trovava inciampi nei mezzi d’espressione. La lingua attica, pure essendo giunta ad altissima perfezione, non appariva ancora troppo sfruttata, e non aveva acquistata la rigidità lessicale e grammaticale che è pur sempre un impaccio alla libera creazione. Esente dall’obbligo di purificarla, il poeta aveva ancora la libertà di plasmarla.

E cosí, grande per innato genio, ebbe la ventura di nascere in un momento oltremodo propizio. E alle opportunità specifiche si aggiungevano le generiche, cioè le singolari felicissime condizioni economiche, civili e spirituali che si venivano formando in Atene dopo le guerre persiane, e alle quali si devono la copia e l’eccellenza della produzione in ogni campo dell’arte. Corrono al pensiero di tutti i nomi di Fidia, di Mirone e di Calàmide, di Polignoto, Zeusi e Parrasio, di Callícrate, Ictino e Mnèsicle. Intercedé allora, tra il genio degli artisti e la natura del compito che erano chiamati ad assolvere, un rapporto intimo e necessario come non mai piú, forse, nella universale storia delle arti. O forse nel momento in cui pittori scultori e architetti cristiani ebbero a rappresentare ed