Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) II.djvu/18

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MEDEA 15

un personaggio puramente odioso non riesce tollerabile. E il desiderio della redenzione è troppo profondamente insito nel cuore degli uomini, perché non debbano commuoversi e convincersi dovunque ne vedano balenare un raggio. E il freddo razionalismo, se trova qualche caloroso adepto fra i meno sensibili, non ha molto potere sul complesso spirito d’una moltitudine di spettatori. E cosí, facilmente si dimentica che questo Giasone che parla con accenti di tenerissimo padre, è quello medesimo che nella prima parte lascia tranquillamente che i figli partano randagi sulle pericolosissime vie dell’esiglio. E con questo accorto equilibrio Euripide ottiene che la tragedia non lasci nei nostri cuori una semplice impressione d’odio e di raccapriccio, bensí anche, insieme con l’altissimo orrore, un’accorata pietà per i personaggi, trascinati, non già dal fato, ma dalla morbosa furia delle loro passioni, a cosí orribili eccessi. Questo era il fine della tragedia, che doveva, secondo l’aforisma aristotelico, operare per mezzo dell’orrore e della pietà.

Qui è tutta la Medea. Inutile soffermarsi sulle figure e gli elementi secondarii. Sono accessorî, tessuto connettivo, indispensabile a mantenere la compagine, ma a cui il poeta non ha accordata troppa attenzione. Però, se non sono di prim’ordine, neppure guastano; e sono concepiti con piena armonia, in una compagine che ripete d’altronde la sua ragion d’essere e la sua nobiltà artistica. Fa eccezione, e brilla come una gemma, il racconto dell’araldo. Neanche in questa tragedia Euripide vien meno alla norma ch’egli s’era imposta, di dipingere in un gran quadro elegante, luminoso, arioso, l’episodio principale del mito preso a svolgere: cómpito che, evidentemente, formava la gioia eletta del poeta fra le molteplici fatiche, non tutte ugualmente gradite, a cui costringe