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altro soggetto»1. Queste parole rispecchiano proprio un sentimento comune.

Ma un passo più oltre, incomincia la discordia. Lo scoliaste, per esempio, condanna l’apparizione finale d’Edipo; e con lui va d’accordo, fra altri, il La Harpe. Ma il Patin osserva, e, mi sembra, a ragione, che questa scena, coronando il dramma con effetto cosí patetico, lo riassume e lo esplica. E c’è a chi non piace il prologo. Ed altri vorrebbe espungere il finale. E Schlegel giudica affatto superflua la scena tra i due fratelli, che per Weil (pag. 167) è la piú peregrina di tutta la tragedia. Navighiamo, è chiaro, nel gran mare del soggettivismo.

Se non che, in questi biasimi rivolti contro mète cosí diverse, è implicita una censura unica, e assai grave. «Non è facile dire — deplora il Patin (p. 300: riassumo) — quale sia il soggetto de Le Fenicie. Da un lato, la rivalità d’Etèocle e Polinice, dall’altro i preparativi della difesa, e il sacrificio di Menecèo, sono come due tragedie parallele, che ora si fondono, ora si separano, e giungono insieme ad uno scioglimento complesso, dove si concludono insieme nella gioia e nella tristezza, fra i canti di vittoria di Tebe liberata e i funerali dei re.

E il Weil, gittando un po’ d’acqua sulle esaltazioni, forse veramente un po’ troppo roventi, del Bemardakis, greco editore de Le Fenicie: «Queste considerazioni — afferma — sebbene non prive di giustezza, non ci impediranno di pensare, con Aristotele ed Orazio, che senza unità non esiste opera d’arte perfetta» (op. citata, p. 166).

E sta bene. E cosí, in linea generale, siamo d’accordo. Ma che cosa poi si deve intendere per unità? O, meglio, qual concetto dell’unità si formano il Weil, e, in genere, i crítici dell’antico teatro greco? Non tanto, come io credo, e

  1. Henri Weil, Études sur le drame antique (1897), pag. 166.