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LE FENICIE 209

la predilezione che per esse mostra il poeta si dové all’opportunità che offrivano di immagini luminose, colorite, magiche.

E ad intensificare questi effetti, concorre la ricchezza dei ritmi, e la loro varietà, che spesso è contrasto: si paragoni, per esempio, il canto centrale (784 sg.), coi suoi dattili gravi e solenni, i suoi periodi ampî e quadrati, con quello che segue alla partenza di Menecèo (1018 sg.), composto quasi interamente di tríbrachi e trochei, di periodi brevi e quasi saltellanti.

Insomma, il poeta prodiga quanto può, nella parte corale, gli effetti di luce di colore di musica. Inebriato, nel rito lirico, egli alza, sull’ignuda statua della tragedia, le mani congiunte, le apre, ne lascia fluire smeraldi, rubini, zaffiri. Troppi, dirà qualcuno. Forse. Ma l’intenzione dell’artista è evidente: moltiplicare la varietà scintillante.

Un altro punto conviene anche rilevare, per caratterizzare piú compiutamente Le Fenicie: ed è l’abbondanza della parte musicale.

Appena finito il prologo di Giocasta, entrano Antigone ed il pedagogo. Questa scena che appare al luogo della pàrodos — l’entrata del Coro, che segue, è priva di anapesti — ne riveste il carattere. Anzi, non è semplice ingresso; è la ascensione d’una scala, sottolineata dalle prime battute, nelle quali Antigone chiede la mano al pedagogo, perché l’aiuti a salire. E il metro non è giambico, bensí alternato continuamente di trimetri giambici e di battute liriche della fanciulla, assai ricche di tríbrachi, quasi una danza. E vediamo, anche traverso gli schemi ritmici, che la melodia si libra sovente piena, sfogata:

Euripide - Tragedie, II - 14