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210 EURIPIDE


Deh, se potessi, come una nuvola
dal pie’ di vento, volar, con rapida
aerea traccia,
al mio fratello caro, del profugo
misero, dopo sí lungo transito
di tempo, al seno gittar le braccia!

Questo brano, cantato, apparso al principio, sembra imprimere il suo carattere a tutto il lavoro. Anche Giocasta, appena apparsa, prorompe in una monodia lunghissima (301-354). La musica è perduta; ma la fantasia di un iniziato può, senza presunzione, e senza timore di equivoci, ricostruirne la configurazione generica sui ritmi agili e quasi volitanti. È musica fiorita, lontana dall’arcaica austerità, che oramai ha presa la mano alla parola, e si sbizzarrisce fra svolazzi e ghirigori.

E il medesimo va detto per il compianto d’Antigone sul corpo dei fratelli, ricchissimo degli atteggiamenti e delle ripetizioni che davano tanta noia ad Aristofane. Per esempio il verso 1500:

δάκρυσι δάκρυσιν, ὧ δόμος ὧ δόμος,

sembra davvero tolto ad una parodia.

E quando il dramma tocca il suo fine, ecco la sticomitia fra Edipo e Antigone dilagare ancora, in duetto, cantato; e, nel duetto, una cavatina di Antigone (1732-1746). E dopo la cavatina, a conclusione di tanta tragicità, l’ultima parte è in metri agili, in periodetti brevi, ricchi di tríbrachi, quasi una canzonetta, quasi una cabaletta. Gli ultimi due versetti di Edipo sono tutto un profluvio di fittissime notine:

ἴθ´ ἀλλὰ Βρόμιος ἵνα τε ση-
κὸς ἄβατος ὄρεσι μαινάδων.