Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) II.djvu/46

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MEDEA 43


senza sostanze, e nulla anzi ti manchi:
ché molti mali trae seco l’esilio.
Ché, pur se adesso tu m’aborri, a te
nemico non potrei volgere l’animo.

medea

O tristo, o scellerato — altro non so
per la tua codardia maggiore oltraggio —
tu vieni a me, tu che odïoso piú
mi sei d’ogni altro? Ardire e forza d’animo
questa non è, fissare in viso i cari
tratti a rovina; è il piú funesto morbo
che fra gli uomini sia: spudoratezza.
Pure, a venir, bene facesti: ch’io
parlando, allevierò l’anima; e tu
ti roderai di tristo cruccio, udendomi.
E delle cose prima parlerò
che furon prima. Io ti salvai, lo sanno
gli Ellèni, quanti il legno d’Argo ascesero,
il dí che tu fosti inviato a Colco
perché col giogo dominassi i tauri
che spiravano fiamme, e seminassi
i mortiferi solchi. Il drago io spensi
che con l’intreccio delle fitte spire
stringendo il vello tutto d’oro, insonne
lo custodiva; e di salvezza il raggio
per te feci brillare. Ed io medesima,
tradito il padre mio, la casa mia,
a Iolco teco, sotto il Pelio, venni,
innamorata piú che saggia, e morte
qual’è piú dolorosa, a Pelia inflissi,
per man delle sue figlie, e t’affrancai