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Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) III.djvu/250

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IPPOLITO 247

e sempliciona: le saccenti aborro.
Deh, mai, mai quella donna in casa mia
non entri, che presuma oltre il suo sesso!
Ché la malvagità suscita Cípride
di preferenza nelle scaltre: invece,
di semplicetta nell’angusta mente
meno ha ricetto la follia d’amore.
Né mai dovrebbe alcuna ancella presso
stare alle donne, ma le mute gole
sol delle fiere, sí che non potessero
ad alcuno parlar, né voce intenderne.
Ché le persone tristi intrighi intessono
in casa, e fuor li portano le ancelle:
come ora tu, ribalda vecchia, vieni
a me, per far del talamo intangibile
del padre mio, mercato: ond’io con fluida
acqua mi monderò, dentro le orecchie
la verserò. Come alla taccia posso
di tristizia sfuggir, quando mi sento
per gli orrori che udii, contaminato?
O donna, e tu sappilo bene: salva
ti fa la mia religïon: se, còlto
di sorpresa, giurato io non avessi
pei Numi, stato io non sarei, che tutto
al padre io non svelassi. Or dalla casa,
finché Tesèo lontano è dalla patria,
io me n’andrò: sarà muto il mio labbro.
E con mio padre tornerò, vedrò
come potrai fissarlo in viso, tu
e la signora tua, saprò per prova
l’audacia tua, sino a qual punto arriva.
Alla malora! D’odïar le femmine