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308 EURIPIDE

d’Agamènnone figlio, e via mi porto
la mia sorella, che in patria perdei».
Non rallentò per ciò la stretta nostra
su la straniera; e a te dinanzi astringerla
volevamo a seguirci. Indi una furia
di colpi orrenda su le nostre guance,
ché né quelli né noi spade avevamo.
E un crosciare di pugni era, e di botte
tempestati eravamo ai fianchi e al fegato
dai due giovani a un tempo; e ai primi colpi
l’ossa avevamo già rotte. E segnati
di terribili impronte, alle scogliere
fuggimmo, chi ferito al capo, chi
sanguinando dal viso: e su le alture
fermato il piede, con maggior prudenza
lanciando sassi, tornammo alla zuffa.
Ma dritti a poppa, con le frecce a segno
ci tenevan gli arcieri; e fu mestieri
farci ancora piú indietro. E in questa, un orrido
flutto la nave spinse a terra; e invase
terror la donna; e in mare il pie’ sospingere
piú non osava. E Oreste la levò
sull’omero sinistro, e in mar balzò,
si lanciò su la scala, e la sorella
depose a bordo della nave, e il dono
dal ciel caduto, della Dea l’immagine.
E di mezzo alla nave un grido surse:
«Date di piglio, o marinari d’Ellade,
ai remi, e biancheggiar fate i marosi
ché quello abbiam per cui, delle Simplègadi
navigando, venimmo al porto inospite».
Levando quelli un grido alto di giubilo,
percossero le salse onde. E la nave