né tirannia. Ma quello che per l’Ellade
fortuna fu, sventura fu per me,
ché fui venduta per la mia bellezza,
che d’obbrobrio coperta son per cause
onde al capo dovrei corona cingere.
Dirai che ancor non ho toccato il punto
piú prossimo: come io dalla tua casa
fuggii di furto. Una possente Diva
con sé condusse il Dèmone maligno,
d’Ecuba figlio, o Paride o Alessandro
che tu voglia chiamarlo. E in casa tua
tu lo lasciavi, o malaccorto sposo,
sopra un legno salivi, e andavi a Creta.
E volgo una domanda, or, non a te,
anzi a me stessa. Che mi venne in mente,
che il mio letto lasciai, tradii la patria
mia, la mia casa, e, tenni dietro a un barbaro
La Dea punisci, e piú possente renditi
di Giove, ch’è signor degli altri Dèmoni,
servo di quella: onde perdono io merito.
Ma specioso un argomento addurre
tu vorrai contro me. Poi che Alessandro
della terra calò morto negli aditi,
sciolte oramai le nozze, opra dei Superi,
la sua casa lasciare avrei dovuto,
ed alle navi degli Achei fuggirmene.
Bene prova io ne feci; e testimonî
delle torri i custodi esser mi possono,
e le vedette delle mura, che
fuor dai merli piú volte mi trovarono,
ad una fune, per fuggire, appesa.
Ma Dëífobo, il mio nuovo signore,
rapita a forza mi tenea sua sposa,